lunedì 3 febbraio 2014

Tre ruote... is megl che One


Da piccolina avevo un triciclo della Chicco. Mi piaceva talmente tanto che non me ne separavo mai. Ci giravo per casa, tra una stanza e l’altra, e poi fuori, in giardino. Ci accompagnavo anche mia nonna a far la spesa: lei camminava sul ciglio della strada e io con il mio super mezzo multicolor zigzagavo al suo fianco, con poco equilibrio ma sicura sul marciapiede. Ecco, il “non me ne separavo mai” di cui sopra è da intendersi nel senso più letterale del termine. Io e lui una cosa sola, h24. Ci andavo, cioè, anche a dormire. Ancora oggi, ogni volta che prendo posizione su qualcosa con la testardaggine più acuta, mia madre mi ricorda quell’episodio. Di quando – avrò avuto più o meno quattro anni – pretesi di andare a letto con lui: con il triciclo della Chicco. E nulla valse ad impedirlo. Nessun “No” e nessun grido arrabbiato della mamma a placare il mio pianto insistente, riuscirono a distogliermi dal folle proposito: dormire abbracciata - sotto le coperte calde, profumate e pulite - ad una zozza biciclettina di plastica, gomma e alluminio.
C’è un aggettivo – di origine romanesca e usato spesso nel linguaggio comune umbro – che descrive un essere capace di simili gesti: l’aggettivo è “tignoso”.
Ora, l’essere tignosi non è una bella cosa.
Non è, ad esempio, come l’essere determinati.
La determinazione è, infatti, quella virtù che ti fa perseguire con tenacia un obiettivo ma sulla base di una pianificazione lucida del percorso e di una serie di valutazioni ragionate con l’intelletto.
La tigna, al contrario, è traducibile con “Lo voglio punto e basta!”, indipendentemente da qualsiasi altra circostanza. È uno sbattere i piedi a terra per ottenere qualcosa, ma con orecchie ed occhi chiusi e, in genere, con la presunzione di avere a proprio sostegno tutte le ragioni del mondo.
Tornando all’episodio che ho appena raccontato, la piccola tignosa Chiara ha ottenuto ciò che desiderava ma puntando tutto sulla soddisfazione immediata di un impulso cerebrale. Senza ascoltare né consigli né raccomandazioni utili, senza calcolare rischi possibili, senza minimamente posare lo sguardo sulle ruotine sporche di terra e cacche dell’oggetto del suo desiderio.
Se la piccola Chiara fosse stata invece determinata, e non tignosa, avrebbe raggiunto ugualmente il suo scopo: il triciclo sarebbe stato lì, accanto al comodino, ad un millimetro da lei, visibile e a portata di carezze ma il rischio di malattie infettive, magari, l’avrebbe corso un’altra piccola tignosa nel mondo.

Perciò:
SI alla determinazione, quella che ti fa scegliere ciò che vuoi e non prendere quello che viene

NO alla “tigna” che se qualcosa ti porta è, molto probabilmente, solo una quantità pericolosa di batteri killer.  

lunedì 18 novembre 2013

Faccio ancora in tempo?

Quando mi chiedono “Chiara, ma perché non scrivi più?”, “E il secondo libro quando lo finisci?”. Io rispondo tendenzialmente “Mi manca il tempo”. Doris Lessing, premio Nobel per la letteratura e scomparsa proprio ieri, diceva di essere “geneticamente nata per scrivere”, ma evidentemente questo non è il mio caso, che di genetico ho solo le dermatiti ereditate da mio padre. Ma non è dei miei impedimenti psicofisici che voglio parlare. 
Io voglio parlare del tempo
Questa parolina che in cinque lettere scandisce ogni attimo e ogni azione della nostra vita. Nel mio lavoro, ad esempio, tutto ruota intorno al tempo: hai trenta secondi per pubblicizzare un prodotto, tre minuti per dare le notizie, dieci per fare un’intervista. 
Il tempo lo devi controllare, lo devi occupare, ma non lo devi mai sforare. 
Di tutte le possibili prigionie umane, il tempo è quella che ha le catene più salde. Ne siamo tutti, in un certo senso, schiavi.
Schiavi della mezz’ora di pubblicità prima del film al cinema. Schiavi dell’attesa di un momento di felicità. Schiavi della fretta delle ore proprio quando ci stavamo divertendo. E tu stai lì, a subire il ritmo arbitrario delle lancette che girano. E con te, stanno lì anche le tue sensazioni. I battiti del cuore, gli sbadigli, le nervature irrigidite. Al tempo non gliene frega se accanto hai l’amore della tua vita o la persona che odi di più al mondo, se sei in fila alle poste o se hai la macchina in doppia fila. 
È lui che decide se farti aspettare o se farsi rincorrere. 
Tu puoi solo sperare di avere fortuna. La fortuna di trovarti, nel bel mezzo del suo passare, vicino alle persone migliori e con ancora in mano la carta vincente da giocare.

Seneca diceva: 
Breve è la vita che viviamo davvero. Tutto il resto è tempo

lunedì 30 settembre 2013

Mezzo pollice verde

Le piante grasse sono, tra tutte le specie botaniche, quelle che amo di più.
In primis perché le loro forme strane mi fanno simpatia. E poi perché credo che abbiano delle caratteristiche naturali assolutamente invidiabili.
Sono nate, infatti, per resistere, per lottare e per adattarsi alle circostanze esterne.
Grazie a particolari tessuti, riescono ad immagazzinare tutta l’acqua necessaria per sopravvivere nei luoghi più avversi, quelli aridi in cui i periodi di siccità sono lunghissimi. E hanno fatto tutto da sé. Si sono – diciamo – organizzate, trasformando le foglie in spine e trasferendo la funzione clorofilliana sul fusto.
Che piante geniali. Che piante forti.
Piante capaci di sopravvivere anche senza le cure e le attenzioni dell’uomo.
Io, che più che il pollice ho forse il mignolo verde, ne ho fatte morire una decina. L'unica, credo, nella storia ad esserci riuscita.
Le piante grasse sopravvivono nei deserti del mondo e sono venute a morire a casa mia, a Ponte Pattoli!
Me ne dispiaccio infinitamente. Mi dispiace soprattutto di non aver fatto in tempo a rubar loro un po’ di quell’equilibrio sapiente che le rende capaci di affrontare anche le situazioni meno ottimali, con vigore e senza alcun lamento. 
Facendo sbocciare piccoli fiori anche tra le spine più appuntite. 

martedì 24 settembre 2013

A far la spesa comincia tu!


Parlerò della spesa, quella che si fa al supermercato.
Al telefono della radio con il presidente di Coop Italia – la Coop quella che sei anche tu, tu che leggi – ricevo da lui questa domanda: “Signorina, lei cosa mette nel carrello?”. E allora io, che la professionalità è un concetto che sono solita gestire a modo mio, rispondo: “Presidente io sono donna e single, perciò poche cose e inutili”.
A me fare la spesa piace parecchio.
Soprattutto mi piace stare in coda alla cassa e sbirciare nei carrelli altrui. E confrontare i loro acquisti con i miei. Non so perchè, ma alla fine mi sembra sempre di aver lasciato fuori qualcosa di necessario che invece gli altri hanno scelto. E la conferma arriva sempre puntuale dall'espressione perplessa della cassiera quando passa il codice a barre dei miei prodotti davanti al laser...

primo bip – salviette struccanti, che ne compro come se mi truccassi sul serio
secondo bip – yogurt al malto e cereali, che fa sempre scena
terzo bip – cereali confezione formato famiglia, che compro solo perchè le tipe della pubblicità della Kellog's sono sempre in tuta, toniche, sorridenti e fighe...e se bastano i corn flakes, ho svoltato!!
quarto bip - sfilatino al formaggio, che spero di trovare a casa la mortadella
quinto bip –  deodorante per auto (ignoro sul serio il motivo)
sesto bip – succhi di frutta a tutti i gusti commestibili, tranne la papaya

E’ evidente, la mia spesa non segue alcun criterio logico-razionale.
Del resto io non sono catalogabile come “consumatrice normale”. A casa non ho bocche da sfamare, pasti da organizzare, bucati formato famiglia da far girare negli oblò delle lavatrici. Non miro alle prime necessità e mi concedo – ancora – la spensieratezza delle ultime, accogliendo la politica della spesa che non è altro che la politica delle scelte che si fanno, ogni giorno, nella vita.
Scegli ciò che ti serve, prendi ciò che ti conviene, ricerchi le fantastiche offerte, ti concedi il brio del superfluo, scarti ciò che è stato già toccato dagli altri e frughi in fondo allo scaffale per portare alla luce il prodotto più intatto.

A volte capita di lasciar fuori qualcosa. Ma anche quelle non prese, sono pur sempre scelte.

lunedì 19 agosto 2013

Ipse Non Dixit

Gli sconfinati spazi del non detto affollano la mia vita da sempre.
E sono ciò di cui facilmente mi pento.
Mi pento di aver trattenuto in gola emozioni, opinioni, sillabe, domande, cose non capite e cose ben intese, pezzi di verità come pezzi di canzoni.
Per pudore, per paura, per prendere tempo, o anche per quell'incontenibile e ridicola serenità che a volte provo e che andrebbe urlata. Ma che resiste in pancia, senza uscire fuori.
La mia lista delle cose non dette si potrebbe stendere su un intero rotolo di carta assorbente.
E diventerebbe borfa di scusa, di ti amo, di forse ho fatto una cazzata a non accettare quel lavoro, di come sto bene con te con nessuno mai, di quasi quasi te darei fuoco, di ma perché non possiamo almeno provarci, di a Stephanie Forrester io volevo bene, di la pelle chiara è nobile un par de palle, di la storia delle affinità elettive è una grande stronzata, di io però ho affinità solo con te, di ho buttato via un sacco di tempo, di l'ho recuperato tutto in un attimo, di lo ributterò con la stessa velocità, di secondo me la felicità sta nelle piccole cose solo se quelle grandi sono finite.
Questo giochino del non detto mi è costato caro tante volte.
Me lo sento tutto nello stomaco, ha lo stesso peso specifico di una bibita gassata.
Un volume d'aria che risale su fino alla gola dove si intrecciano tutti i nodi che non ho mai sciolto.

Penso di essere nata con un autocontrollo incredibile.
Penso anche che, se non fosse stato per il medesimo self control, ora sarei una serial killer professionista.


mercoledì 29 maggio 2013

Nove grammi di carezze



Chiara aveva nove grammi di carezze nella tasca destra dei suoi jeans. Era rientrata a casa pensando che potessero bastare. La signora delle ricette in tv ne consigliava un paio in più ma a Chiara andava bene lo stesso. La cucina non era il suo forte. La prima volta che aveva preparato un piatto il risultato era stato un disastro. Dosi sballate, superfici bruciacchiate, cattivo sapore. Ma di quelle carezze parlavano veramente bene. Dicevano che avrebbero rivoluzionato il modo di mangiare. E poi erano facili da preparare, potevano riuscirci tutti senza avere doti da grandi chef. Bastava aggiungerle a qualsiasi altro ingrediente – dolce, salato o piccante non faceva differenza – lasciarle amalgamare bene a fuoco lento et voilà. Pronte in pochi minuti. Miracolose più dell’olio. Essenziali più del sale. Ricercate più del caviale. Le carezze erano capaci di assecondare ogni palato e soddisfare il gusto di chiunque. Chiara non le aveva mai usate prima. Quel giorno al supermercato – dove le vendevano sfuse, tra il bancone dei surgelati e lo scaffale dell’acqua minerale – le aveva scelte con cura e infilate nella busta trasparente tenendo d’occhio il cartellino con il prezzo. Erano in offerta e la gente non sembrava poi così interessata. Chiara però era curiosa di provare. Un grammo alla volta, carezza dopo carezza, aveva svuotato la busta e riempito il tegame antiaderente, facendo attenzione alle istruzioni date alla tv. Aveva mescolato e posto sopra il coperchio, lasciando solo una fessura per far evaporare l’acqua di cottura. Mentre aspettava che il timer suonasse, Chiara pensava a quello che sarebbe stato, al sapore che avrebbe avuto, all’armonia dei colori che le carezze avrebbero sprigionato una volta sistemate sul piatto. E si immaginava già la foto che avrebbe scattato e condiviso in rete con le amiche. Finchè il suono impazzito del timer tagliò il filo di ogni pensiero nella mente di Chiara. Era il momento di sollevare il coperchio. Le carezze erano pronte e Chiara era impaziente. Nella scoperta di quel momento aveva riposto l’attesa di qualcosa che avrebbe cambiato la percezione dei suoi sensi. Qualcosa che l’avrebbe saziata facilmente e senza troppo sforzo. E poi “carezze”, che bel suono che aveva quel nome. Con il pollice e l’indice stretti sul pomello del coperchio, Chiara tirò su di scatto. Il vapore le rimbalzò sulle lenti degli occhiali da vista appanandole tutte. Ma riuscì a vedere lo stesso. Il fondo della pentola era completamente vuoto. Nulla, non c’era rimasto nulla. Nemmeno la più piccola sostanza della più piccola carezza. Seduta con la sguardo fisso sul piatto nudo, Chiara capì che le carezze a prezzo scontato, alla portata di tutti e assaporabili in fretta non avrebbero mai rivoluzionato il gusto del mondo.

Pubblicato sulla rivista UMBRIANOISE (N. 13)
www.umbrianoise.it 

lunedì 29 aprile 2013

Alla fine è sempre vero...



  • che lo stile è la fisionomia dello spirito (Schopenhauer)
  • che c'è chi ha i miliardi e chi miliardi di idee
  • che ciò che trascuri diventa di qualcun altro
  • che il barometro dei nostri successi è al 99% sballato
  • che tra il dire e il fare c'è di mezzo la chat di whatsapp
  • che i baci non sono mai troppi e nemmeno le carezze, gli abbracci e gli sguardi in profondità
  • che si può scegliere se vivere o tirare a campare (con un Campari, magari!)
  • che ti innamori se ti capita ma ami se ti ci dedichi
  • che chi ha il pane non ha i denti e viceversa
  • che per fare una famiglia serve un cofinanziamento, un possedimento e un conto corrente. E se poi c'è anche l'amore, ben venga!